Il personaggio (intervista su TAXI 1987)
Aldo Ciavatta il re del casual chic
Passeggiata il riva al mare tra sogno e realtà. (di Donatella Monforte – foto di Arnaldo Castoldi.)
In definitiva mi ha intervistata lui. Con la sua aria «sorniona», lo sguardo da gatto, il sorriso furbesco, mi ha praticamente sottoposto a un serrato fuoco di domande.
«Il casual è finito? L’eleganza esiste? E la classe è innata o si può imparare? La moda è ancora di moda? Ho un sogno: immagini tre grandi big insieme per inventare qualcosa di unico, prodotto da noi. Cosa ne pensa?».
Il mio sorriso e il mio sguardo sbalordito non lo scoraggiano, anzi, Aldo Ciavatta, «il re del casual-chic», è un ottimista e un coraggioso, le difficoltà lo stimolano, lo eccitano, sono praticamente il suo pane.
«Sono ottimista, è vero, affronto la vita con allegria, non sopporto i musi e i malumori. E’ normale vivendo in una città come Rimini, dove sogno e realtà vanno a braccetto e si sposano con i sospirati, dolci “amarcord” di Fellini. Qui c’è tutto, il mare, il sorriso della gente, il “Grand Hotel”, i colori delle barche, i volti dei pescatori, la luce delle lampare, il “fruscio” delle onde… è Rimini un’altra cosa, altra vita. Ci si alza con la luna storta, si apre la finestra e subito tutto passa».
Se a prima vista può sembrare un romantico, un dolce, Aldo Ciavatta è prima di tutto un industriale con la testa sulle spalle.
«La qualità è la nostra forza. Preferisco perdere in quantità che in perfezione. Si lavora tanto, direi che il lavoro è la nostra unica droga, ma non amo il caos, non tollero il disordine, la superficialità, l’improvvisare. Gli stilisti possono, devono farlo, anzi gli si richiede solo fantasia e creatività, ma un industriale deve fare i conti con la realtà di tutti i giorni soprattutto in un momento difficile come questo». Ball, Katherine Hamnett, Closed, Marithé François Girbaud, Red Button 601: firme conosciute in tutto il mondo, che danno lavoro a 410 persone, che contribuiscono a far parlare dell’Italia».
È una grossa realtà: qui i risultati ci sono, le cifre sono evidenti. Ma lui, Mister Ciavatta, sembra non farci caso, sorride, saluta la gente che incontriamo, si distrae per inseguire con lo sguardo il volo di un gabbiano, rimanda la palla a un bambino. «Scusi, ho perso il filo del discorso… Come ho cominciato?
«Pensi che avrei dovuto diventare avvocato e invece mi sono perso negli “stracci”. E devo dire che questi nostri “stracci” hanno avuto successo anche tra i personaggi dello spettacolo come Arbore, Boncompagni, De Crescenzo. Poi abbiamo cominciato anche a venderli, la gente si stupiva, ma li comperava e così abbiamo deciso di diventare ancora più seri. Ci siamo guardati in giro, abbiamo adocchiato degli uomini validi, li abbiamo “rubati” e adesso ci sentiamo sicuri. Abbiamo il meglio. Nella tecnica siamo imbattibili. Quello che produciamo ha come matrice il caro vecchio West, chi non ama i duelli di “Mezzogiorno di fuoco”? Chi non ricorda la musica seducente di “C’era una volta il West?” , chi non si è sentito eroe o pioniere per una volta almeno nella vita? L’altro filone è il militar-look: il ragazzo americano, eroe dei film dedicati al Vietnam, protagonista della storia americana di oggi.
È il jeans che in fondo ha contribuito in massima parte al suo successo?
«Nei momenti sociali difficili, in discesa come li definisco io, il jeans casual sparisce, restano quelli che hanno valore intellettuale; come il 501 della Levi’s carico di cultura, e resteranno per la vita. Oggi il jeans non è legato a niente, a nessun movimento, e allora i ragazzi cercano un modello che abbia qualcosa di diverso, come una tasca profilata, un bottone personalizzato, uno stemma evidente, insomma lo trasformano in un capo moda dichiarando così la morte del jeans»
Ha voglia di una linea “Aldo Ciavatta”?
«Io penso che ognuno deve fare il proprio mestiere. Io non sono un artista, il mio mestiere è quello di fare pantaloni e camicie. Di farle bene e di venderle. Siamo fortissimi in Spagna, in Giappone dove vendiamo 400.000 capi e in Australia dove siamo secondi sul mercato. Le spiace accompagnarmi a casa… stamattina sono uscito presto e non ho innaffiato le piante e i fiori in giardino. Ma non si preoccupi, faccio in un attimo. Mi bastano una decina di minuti»
L’affascinano i sogni o la realtà?
«Sono uno strano tipo di sognatore: sogno ad occhi aperti con i piedi per terra. Il mio grande sogno? Questa casa, l’ho rincorsa praticamente da sempre: tutta una vita. Sono le mie radici, è la prova del mio amore per Rimini. Amo viaggiare e lo ritengo un dovere professionale, ma il ritorno qui è obbligatorio. Via mi mancherebbe l’aria, mi mancherebbe questa carica di vitelloneria felliniana che è una ragione di vita. Guardi il Grand Hotel, è un’isola, è un sogno che è una nostalgia che non ci lascia mai. E un po’ il mondo di Fellini: la gente ha smesso di pensare a Rimini come la città della piadina e del liscio proprio grazie a lui. Ma in fondo io amo Rimini anche per la sua piadina e per il liscio, anzi, guardi, conosco un posticino molto carino, in collina, niente di elegante, un posto rustico, alla buona… ma si mangia di un bene e poi volendo ci si può lasciare prendere dalle danze…».
«Grazie, sarà per un’altra volta, anche perché da perfetta milanese nel liscio sono un vero disastro».
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